RELAZIONE CONVEGNO NOVEMBRE 2004

UN PROGETTO DI HOSPICE PER PISTOIA

Il mio compito è quello di presentare il progetto elaborato per conto dell’Azienda USL 3 di Pistoia, per la realizzazione di un centro per le cure palliative – hospice, ubicato al piano terra dell’ex Monastero di Santa Maria delle Grazie a Pistoia, spiegando le motivazioni e anche il percorso che hanno accompagnato il complesso iter progettuale.

Nella mia esperienza professionale, ho avuto modo di occuparmi del restauro conservativo di beni monumentali e parallelamente ho affrontato diverse esperienze legate ai temi dell’architettura sociale, con la redazione di progetti di strutture atte ad accogliere e gestire problematiche di natura sociale. Sono membro del Comitato Scientifico della Fondazione Michelucci, che da tempo si occupa prevalentemente del rapporto tra le marginalità sociali e la città, con l’obiettivo di comprendere come le “sconfitte” dell’uomo contemporaneo possono diventare occasione per una sua rinascita e per la città stessa.

Nel progetto per l’hospice, sono confluite inevitabilmente queste due dimensioni professionali, con la consapevolezza che una determinata soluzione progettuale scaturisce da un legame con il contesto sociale e territoriale in cui si colloca, in relazione alle risorse disponibili, e rappresenta una risposta mirata e quindi, non può essere semplicemente l’adattamento di modelli predefiniti.

A monte, due scelte hanno condizionato – spero positivamente – l’iter progettuale. La prima è stata quella di dover definire funzionalmente la natura stessa di un hospice, sulla base dei requisiti minimi individuati dal Decreto del Presidente del Consiglio del 20 gennaio 2000. È stata l’occasione per riflettere sulla questione ricorrente se esista o meno la necessità di un luogo specifico per la cura di malati terminali, anziché demandare la cura in ambienti tradizionali come la casa propria oppure ad un reparto di cura generale. Dietro ogni scelta sostenuta a livello legislativo esistono motivazioni a supporto, che spesso non sono ancora state, probabilmente elaborate dall’opinione pubblica e forse anche dagli stessi addetti ai lavori: incontri di approfondimento come questo possono essere l’occasione per aiutare a comprendere il significato e il senso di determinati servizi che andiamo a istituire sul territorio.

In secondo luogo, si trattava di andare a inserire l’hospice in una struttura architettonica di pregio: il centro residenziale sorge in un contesto che pone il problema della conservazione degli edifici storici, ma in particolare della compatibilità tra le funzioni che questi manufatti possono ospitare e gli ambienti. La singolarità italiana è proprio quella di avere un numero elevato di beni architettonici di valore storico e artistico; non è pensabile a un loro utilizzo solo in chiave “museale”, mentre è indispensabile ricercare sempre la massima qualità dei nuovi interventi.

Nel comma 1.3’dell’allegato n° 1 del decreto sopra citato, si può comprendere quali sono i principali obiettivi che si devono raggiungere nell’organizzazione strutturale e funzionale del centro: la dignità del paziente e dei suoi familiari, un’organizzazione spaziale utile a creare condizioni di vita simili a quelle godute dal paziente presso il proprio domicilio, mentre la personalizzazione delle stanze e la qualità degli spazi progettati devono facilitare il benessere.

È chiaro che tutto ciò è ben più difficile da raggiungere in una struttura già esistente, che pone dei vincoli spaziali rispetto alla libertà compositiva e distributiva di una nuova edificazione: il progetto ha quindi raccolto anche questa sfida.

L’hospice ha una parte residenziale (camere con otto posti letto), una destinata alle terapie e infine un’area generale di supporto, molto importante perché rappresenta il collegamento tra la struttura e la città, come vedremo più avanti.

È un servizio di natura socio-sanitaria, che deve essere necessariamente integrato nel sistema dei servizi territoriali: generalmente si pensa alla casa in senso astratto ma questa, per diversi ordini di problemi, non sempre è idonea ad accogliere le esigenze di un malato terminale, per cui l’esperienza insegna che esiste una reale necessità di un ricovero temporaneo in una struttura specifica, in modo da fornire accoglienza e cure particolari, dando allo stesso tempo, sollievo e sostegno agli stessi familiari.

Al di là delle ricadute “funzionali”, legate ad aspetti della vita quotidiana, ogni nostra azione, dal momento della nascita a quella ultima della morte, presenta un suo risvolto sociale: il grado di civiltà di una società si misura attraverso il livello di qualità delle strutture che accolgono la vita nascente e quella sofferente, sino al suo termine. Ci sono nazioni che investono grandi risorse nella qualità degli spazi di natura socio-sanitaria e il pieno inserimento dell’Italia nella Comunità Europea deve fare i conti con questi aspetti .

Nonostante che il dramma della morte ricada inevitabilmente sulla persona e sulla sfera degli affetti che la circondano, esso non può rimanere solo un fatto privato; in qualche misura la comunità deve farsi carico di questo momento, soprattutto nei casi dove è carente la condivisione della malattia da parte dei familiari. Il fatto che possano esistere delle strutture in grado di offrire un sostegno concreto alla malattia e di ordine psicologico, finalizzato a rendere più naturale e di conseguenza “accettate” le fasi ultime della vita, rappresenta un fatto sociale di grande importanza.

Anche la malattia, se condivisa e inserita in una dimensione più ampia, può diventare un’occasione di arricchimento interiore, anche per chi vive a stretto contatto con la persona malata.

In primo luogo sono le persone che fanno vivere in senso positivo le strutture, anche se è il compito dell’architettura accogliere e non ostacolare queste dinamiche, favorendo soprattutto i sistemi di relazione.

Quando nelle norme legislative si parla di “condizioni di vita simili a quelle del domicilio” quindi, non si tratta soltanto di ricreare condizioni “esteriori”, come ad esempio l’arredo della camera, ma di generare tutto quel sistema di attenzioni richiesto da parte di chi sente di essere oramai al termine della propria vita, attraverso una rete di assistenza frutto di un lavoro di équipe, in grado di promuovere la personalizzazione dei rapporti e della cura e rispetti la coscienza del malato.

Questi, a mio avviso, sono i contenuti che danno il volto alla dimensione “domiciliare” dell’hospice e questi sono gli obiettivi da raggiungere attraverso il lavoro degli operatori coinvolti.

Sotto il profilo funzionale - distributivo l’hospice si inserisce al piano terra dell’ex struttura conventuale di Santa Maria delle Grazie, occupando tutta l’ala nord e una parte di quella est, attestata su via della Crocetta: ambedue i fronti si affacciano sul grande giardino delimitato superiormente dal tracciato di via del Soccorso. In un prossimo futuro sarebbe auspicabile ubicare la sede del servizio territoriale per le cure palliative nella porzione est ora stralciata, in modo da sottolineare l’esigenza di una stretta collaborazione tra queste due dimensioni.

Il compito specifico, come ho già accennato, è stato quello di inserire l’hospice, con le sue priorità ed esigenze, in una struttura di rilevante valenza storica e artistica, operazione che ha richiesto uno stretto collegamento con la Soprintendenza dei Beni Culturali, soggetto istituzionale deputato alla conservazione dei beni architettonici.

Questa struttura, anche nell’ottica della costruzione del nuovo ospedale, è capace di relazionarsi con quell’idea di ospedale di comunità, che dovrebbe essere creato nella riconversione dell’antico Ospedale del Ceppo, secondo un piano particolareggiato redatto dall’Architetto Cervellati, con il riordino di tutti i servizi di carattere socio-sanitario, che al momento sono sparsi un po’ ovunque nella città.

L’hospice, essendo per sua natura una struttura a carattere residenziale, è svincolato funzionalmente dall’ospedale e collegato al servizio territoriale: tale organizzazione non può che essere coerente con la filosofia dell’ospedale di comunità.

Operare la scelta di inserire l’hospice in una struttura a carattere storico-artistico è stata sicuramente una scelta coraggiosa; se è vero che una nuova edificazione avrebbe presentato meno problemi di adattamento, in questo modo si è operato raggiungendo un duplice obiettivo di grande rilevanza sociale: da una parte la realizzazione di un servizio di assistenza in relazione a un bisogno reale, dall’altra il recupero di un complesso storico che altrimenti avrebbe rischiato, per mancanza di finanziamenti, di essere lentamente abbandonato.

Spesso il rapporto con gli edifici storici risulta un po’ troppo idealizzato; la proposta di inserirvi dei servizi utili e non effimeri sembra stonare con l’idea di un recupero del valore artistico; occorre, inoltre, sottolineare come in questo caso si tratta di intervenire in un luogo in parte degradato e che presenta ampie alterazioni degli assetti originari.

L’obiettivo particolare del progetto è dunque quello di proporre una soluzione spaziale in cui far convivere le esigenze specifiche di una struttura socio-sanitaria, andando in parte a modificare l’attuale immagine, ma compiendo allo stesso tempo un’operazione di valorizzazione degli elementi di pregio presenti nell’edificio stesso: il criterio guida è quello della conservazione e dell’arresto del decadimento dell’edificio.

Dal punto di vista tecnico-funzionale, le stanze e gli ambulatori dell’hospice sono relativamente semplici e non presentano un elevato impiego di tecnologie, per cui l’impatto delle nuove opere è basso: l’esigenza della conservazione è basata inoltre su un criterio di reversibilità applicato per le parti di nuova formazione. Le pareti che serviranno per ricavare le camere e gli ambienti di servizio saranno costruite in cartongesso, sistema costruttivo che permette una grande versatilità nel momento in cui le esigenze funzionali o le destinazioni d’uso dovessero nel tempo mutare, senza creare dei “traumi” alla struttura principale.

Un altro criterio seguito per soddisfare gli obiettivi proposti è quello di combinare armonicamente, insieme al rispetto del luogo, le condizioni dignitose dell’accoglienza con la funzionalità della struttura.

Questo progetto presentava aspetti completamenti nuovi e delicati; durante lo svolgimento delle singole fasi il Dott. Lavacchi, medico che da anni referente all’interno della A.Usl 3 delle cure palliative, ha fornito alla progettazione utili indicazioni e una preziosa collaborazione. Con il suo aiuto è stato possibile calibrare il progetto, tenendo conto della delicatezza del tema, anche a seguito di alcune visite in strutture similari, come l’hospice di Livorno.

Tale visita ha fornito numerosi spunti di riflessione dal punto di vista dell’uso dello spazio, ma ha confermato l’importanza di un clima di rispetto della dignità del malato, grazie soprattutto alle motivazioni e alla professionalità di tutto il personale.

Un altro momento importante, sotto il profilo formativo, è stata la mia partecipazione, nel giugno del 2004, al convegno pistoiese organizzato dal Coordinamento Regionale delle Cure Palliative. Mi ha colpito in particolare l’intervento del Dott. Flavio Fusco di Genova, che ha sollevato la questione della centralità del malato rispetto all’équipe che lo circonda e lo cura: anche tenere la mano del malato rappresenta, in quest’ottica, un atto curativo, così come sono centrali i bisogni del paziente (il bisogno di essere ascoltato, di non essere lasciato solo, il bisogno di informazione e di comunicazione).

La necessità di disporre di uno spazio dignitoso risponde a questa duplice esigenza sia di chi lavora, sia di chi viene accolto nelle strutture e fa si che il conforto e il benessere possano trovare risonanza con lo spazio fisico. In occasione della visita all’hospice di Livorno, è stata sottolineata l’importanza, sotto il profilo del benessere psicologico, del rapporto (anche soltanto visivo) delle persone in cura con la natura e con il verde. Nel caso di Pistoia, essendo la struttura collocata a piano terra tale dimensione è stata valorizzata: è stato possibile “dilatare” la camera verso il giardino non solo visivamente ma anche fisicamente.

Spesso gli architetti, avanzando nell’età e magari trovandosi anch’essi nella necessità di essere ricoverati in strutture socio-sanitarie, si trovano a dover fare i conti con spazi di cura: in una delle sue ultime interviste, l’architetto Giancarlo De Carlo, affermava come la sua vita fosse rifiorita nel passaggio da un ospedale a un altro, perché nel secondo chi lo aveva progettato si era preoccupato di dare risposte alle esigenze della vita quotidiana e ai movimenti dei pazienti. A un architetto in fondo, sottolineava, “si chiede di progettare l’angolo”, vale a dire la capacità di ricavare segni di intimità all’interno di uno spazio, anche minimale, e di creare soluzioni e finiture rassicuranti.

Dopo la fase esecutiva delle opere strutturali e impiantistiche, si dovrà infatti studiare nel dettaglio gli arredi interni, in modo da dare luogo a quella personalizzazione di cui si diceva, per superare la neutralità (spesso fastidiosa) che caratterizza gli ambienti ospedalieri, al fine di creare un equilibrio rassicurante di non-estraneità, proponendo soluzioni e materiali armonizzati con la valenza storica dell’edificio.

Dovendo descrivere il centro sotto il profilo distributivo, occorre partire dall’ingresso pubblico alla struttura (comune a quello degli ambulatori medici ubicati al piano superiore), da via della Crocetta. Da tale ingresso si accede ad un grande atrio e ad una parte destinata alle attività diurne come la biblioteca e uno spazio ricreativo in grado di ospitare amici e familiari della persona in cura per festeggiare alcune ricorrenze o per una semplice cena – è infatti stata prevista una cucina -tisaneria gestita occasionalmente dai familiari -.

In particolari circostanze questo spazio polivalente potrà essere anche un luogo aperto per ospitare mostre, piccoli spettacoli o incontri tesi a sensibilizzare la cittadinanza su questi temi delicati e troppo spesso rimossi. Fondamentalmente si è voluto creare un ambiente in cui la città possa e debba entrare, per evitare che l’hospice divenga soltanto, nell’immaginario collettivo, un luogo dove si va a morire.

Coloro che desiderano possono accedere con facilità alla chiesa della Madonna del Letto o uscire in piazza San Lorenzo, riacquistando in tal modo anche una dimensione di urbanità.

Nell’ex refettorio, lungo tutta l’ala nord, si sviluppano le camere (otto posti letto), con accesso diretto sul giardino, distribuite lungo un corridoio, separato dagli spazi di servizio e dagli ambulatori da pareti di cartongesso, che essendo di dimensione inferiore a quella del vano, permettono la visione dei soffitti in legno.

Osservando l’organizzazione della singola camera, in accordo a quanto richiesto dalla Soprintendenza ma anche per sottolineare il legame fondamentale con gli elementi della natura, dopo aver rimosso le attuali incoerenti tamponature, la struttura del portico verrà chiusa da ampie vetrate, dalle quali sarà limitato l’irraggiamento diretto (sono rivolte a nord). All’interno della camera, appoggiata nella parte interna dell’infisso, verrà sistemato un piano in legno, che permetterà di sostare dinanzi al giardino e che potrà essere utilizzato sia per consumare i pasti che per leggere o scrivere; alla persona sembrerà di essere inserita nel verde anche quando non potrà accedervi direttamente: questa dimensione si è dimostrata molto importante sotto il profilo curativo.

In conclusione, desidero richiamare uno scritto di Giovanni Michelucci, tratto da Un sogno: la capanna dell’angelo, in cui l’autore descrive poeticamente la felicità dell’architetto, dopo aver ricordato che non sono i luoghi che devono cambiare, ma le persone che li abitano: «uno spazio è sempre povero, quando è privo di relazioni, ed è sempre bello, quando è generativo di incontri, di possibilità sinora inesplorate».

Accogliamo il suo invito secondo cui lo spazio è bello quando genera incontri, quando è utile, non solo per chi deve ricevere delle cure, ma anche per chi è chiamato a prestare assistenza o svolge attività di volontariato. L’hospice sia un luogo di incontro, dove la vita può essere vissuta pienamente, fino all’ultimo istante.


Alessandro Suppressa